Olocene, l’ultima epoca geologica: dalla fine delle glaciazioni ai giorni nostri
Nella seconde parte dell’articolo, abbiamo visto qual è stata l’evoluzione del Carso Classico nel Pleistocene e lo abbiamo lasciato nella seguente situazione: un altopiano boscoso ricco di fauna, privo di corsi d’acqua, ma con una piovosità sufficiente a garantire una vita rigogliosa, tanto che numerose tribù di Homo Sapiens vi si sono stabilite, abitando soprattutto le numerose caverne che caratterizzano la zona. Purtroppo, però, questa situazione apparentemente tranquilla sta per cambiare: l’Uomo sviluppa sempre più le sue capacità cognitive e la sua tecnologia sta per fare un balzo avanti.
In questa parte conclusiva del nostro viaggio nel passato del Carso Classico, ci concentreremo su ciò che avviene dalla fine dell’ultimo periodo glaciale (11.700 anni fa, la fine del Pleistocene), fino ai giorni nostri, l’epoca geologica attuale (Olocene) che è stato proposto di chiamare Antropocene, l’Epoca dell’Uomo, dato l’impatto causato dalla nostra specie sull’ambiente.
Il nostro viaggio, quindi, entra in quella che gli archeologi chiamano Età Neolitica (che va dal 10000 a.C. al 3500 a.C., circa) durante la quale inizia l’uso della pietra levigata (viene abbandonata la semplice pietra scheggiata del Paleolitico) e la prima produzione di vasellame; inoltre, fatto molto importante da molti punti di vista, inizia l’attività agricola e, soprattutto, l’uomo impara a soggiogare gli animali dando origine alla pastorizia.
La deforestazione
Ora, per proseguire il viaggio, ci addentreremo in una delle ipotesi più recenti e affascinanti riguardanti l’evoluzione finale del Carso Classico, ipotesi che è stata formulata e proposta da alcuni geologi sloveni (per approfondire partire da questo articolo che si trova in rete: KRANJC, A., 2008, History of Deforestation and Reforestation in the Dinaric Karst, Geographical Research).
Attorno al 6500 a.C., dal Medio Oriente giunge nei Balcani e sul Carso Classico la cosiddetta Rivoluzione Neolitica. Il passaggio da uno stile di vita da cacciatori/raccoglitori ad agricoltori/pastori rende necessario procurarsi ampie distese di terreno libero dalla boscaglia o dalle foreste e ciò induce gli uomini dell’epoca a iniziare la pratica del disboscamento o deforestazione (attraverso il taglio o l’incendio) allo scopo di creare vaste aree da coltivare o pascoli per le greggi; c’è da aggiungere, inoltre, che il legno, per migliaia di anni, sarà una preziosa risorsa per il riscaldamento, le costruzioni e la produzione di manufatti, tanto che la deforestazione diventa un’attività continua e non regolata.
Sul Carso Classico, dove si afferma più la pastorizia che l’agricoltura, si assisterebbe così alla progressiva riduzione della foresta, sostituita da un regime prativo; ma l’uomo neolitico non aveva fatto i conti con la Natura, che infatti gli si sarebbe rivoltata contro: in poche migliaia di anni, l’acqua piovana avrebbe dilavato il suolo e l’avrebbe trasportato, poco a poco, in profondità, complici la fratturazione carsificata della roccia e le sottostanti grotte carsiche, che comunque avevano continuato ad allargarsi sotto il suolo terroso.
Secondo l’ipotesi presa in considerazione, quindi, gli effetti sarebbero stati i seguenti:
Inoltre, le forme arrotondate delle rocce che erano state ben carsificate sotto al suolo sarebbero state messe allo scoperto e quindi, solo in quel momento, sarebbe iniziata la formazione dei Rillenkarren e in generale la genesi delle forme acute e taglienti che oggi caratterizzano il Carso Classico.
Si sarebbe formata, così, ciò che sarebbe diventata l’idea condivisa di landa carsica: una terra aspra, rocciosa, con pochissima vegetazione e una totale assenza di acqua in superficie.

Per quanto riguarda l’ambiente ipogeo, possiamo dire che durante il periodo della deforestazione, le cavità sono già da tempo senescenti (fossili) e in fase di continuo riempimento.
Inoltre, secondo gli autori sloveni:

L’ipotesi che stiamo analizzando è anche confortata dalle foto del Carso Classico scattate nella seconda metà dell’800, un ambiente spoglio e pietroso, come risulta anche dalle descrizioni di numerosi studiosi e viaggiatori dell’epoca (principalmente austriaci) che lo definiscono “un deserto di pietra” (come riportato anche in questo articolo: http://www.studicarsici.it/studi/lorigine-della-parola-carso-e-la-sua-evoluzione/ ).
La riforestazione
Arriviamo così alla fine dell’800: dopo vari tentativi più o meno infruttuosi, nel 1882 il Governo austriaco approvò un disegno di legge e costituì la “Commissione del rimboschimento del Carso” che, dopo aver compilato un catasto dei fondi boschivi, pascolivi e improduttivi, e dopo aver acquistato alcuni appezzamenti da privati da unire ai Fondi Comunali e a quelli del Fondo d’imboschimento, potenziò l’orto di Basovizza, costruì un piantonaio sempre a Basovizza e un semenzaio a Barcola nonché due orti temporanei a Santa Croce, dai quali furono tratte piante da consegnare anche ai privati che volevano rimboschire i loro terreni.

La Commissione rimase in attività per 30 anni e durante quel periodo sorsero 873 ettari di bosco impiegando quasi 15 milioni di piantine e 6 tonnellate di semi; furono eretti 33 km di muretti a secco e costruiti 17 km di strade.
Questa impresa fu talmente ammirevole che numerosi esperti vennero da tutta l’Europa ad impararne le tecniche.
In un’Esposizione a Parigi, nel 1900, alla Commissione, unitamente a quella per il Goriziano e per l’Istria, fu assegnato il primo premio, il Grand Prix.

Ario Tribel, nel suo “L’imboschimento del Carso” (in “Guida dei dintorni di Trieste”, Società Alpina delle Giulie, Trieste 1909), annota:
Chiunque spinga i suoi passi sul brullo altipiano che sovrasta e circonda Trieste, rimarrà colpito da segni non dubbi di un’opera gigantesca, che lentamente ma costantemente progredisce e riuscirà certo a tramutare la melanconia di quei deserti di pietre nella ridente ubertà d’un suolo avvivato dal verde dei prati e dei boschi, vanto non piccolo questo della feconda operosità del patrio Consiglio, iniziatore e collaboratore di tale opera.
Dopo la riforestazione il Carso Classico cambia volto
All’aumentare progressivo dell’estensione della superficie boschiva e quindi al lento riformarsi del suolo, l’acqua di percolazione diventerebbe progressivamente più aggressiva per l’apporto di CO2 fornito dal suolo e quindi aumenterebbe nuovamente la degradazione della roccia calcarea per corrosione.
Gli speleotemi si scurirebbero nuovamente (o per meglio dire scuriranno in un prossimo futuro) a causa degli acidi fulvici e umici prodotti dalle piante in superficie e s’innescherebbe il fenomeno del ringiovanimento ipogeo e cioè la ripresa della carsificazione per degradazione chimica, che in effetti attualmente è visibile nelle grotte in forma di diffusi fenomeni di corrosione delle concrezioni calcitiche.

Ora, però, va evidenziato che, seppur confortata da alcune evidenze, l’ipotesi sopra descritta sull’evoluzione recente del Carso Classico dal Neolitico in avanti è ancora da dimostrare e sarà necessario effettuare molte osservazioni nelle cavità del Carso Classico (che sono ottimi archivi geologici per la ricostruzione degli eventi del passato); ciò che oggi possiamo affermare è che si tratta di una visione molto affascinante sulla quale si osservano già alcuni riscontri sul campo che la rendono degna di ulteriori approfondimenti.
E infine siamo arrivati ai giorni nostri. Spero che questo lungo viaggio nella storia geologica del Carso Classico (lungo, ma lo stesso troppo breve per illustrare tutti gli argomenti) sia stato di vostro gradimento e se vi ho stuzzicato l’appetito e avete domande, dubbi o necessità di approfondire, non esitate a contattarmi direttamente su Facebook o attraverso l’email della Società di Studi Carsici A.F. Lindner ().